Il Sole 15.5.2016 Non solo un cumulo di problemi: le megalopoli si ridisegnano attorno alle persone. Partendo da connessione e inclusione di Elena ComelIi
Occupano solo il 2% del territorio, ma producono il 70% del Pil, delle emissioni e dei rifiuti globali. Sono le città, dove ormai si concentra oltre il 50% degli abitanti del pianeta, in condizioni non sempre ideali, ma preferibili rispetto alla miseria che hanno lasciato. Il processo d’inurbamento delle grandi masse rurali è un flusso che continua ormai da due secoli e non si fermerà, malgrado i tentativi di frenarlo da parte di molti governi con l’imposizione di residenze obbligate, come il sistema “hukou” nell Cina degli anni Cinquanta. Dopo secoli di resistenze, comincia invece a farsi largo l’idea di accompagnare l’inurbamento o addirittura di sollecitarlo e incanalarlo, facilitando così la gestione di un processo che altrimenti genera sacche di sottosviluppo disastrose, sempre più difficili da bonificare. «La principale novità nel dibattito in corso è la nuova visione dell’inurbamento come uno strumento per lo sviluppo e non solo come un’accumulazione di problemi», spiega Joan Clos, l’ex sindaco di Barcellona, oggi direttore esecutivo di United Nations Habitat, il dipartimento dell’Onu che si occupa di sviluppo urbano. Clos è nel pieno della preparazione di Habitat III, la conferenza internazionale convocata a Quito in ottobre, a venti anni di distanza dalla precedente di Istanbul, quando ancora l’umanità non era composta in maggioranza da cittadini. Il processo d’inurbamento è stato rapidissimo ed è andato di pari passo con la fortissima crescita demografica degli ultimi due secoli: nel 1800 eravamo 1 miliardo e solo 20 milioni di persone vivevano in città; nel 1930 eravamo 2 miliardi, di cui 300 milioni di cittadini; oggi siamo 7,4 miliardi, di cui 4 miliardi di cittadini, e nel 2050 il mondo avrà quasi 7 miliardi di cittadini, il 70% dell’umanità. Nel 1950, solo New York superava i dieci milioni di abitanti, mentre oggi le città oltre tale soglia sono 35, di cui 20 in Asia. Ma l’inurbamento da solo non basta per portare sviluppo: nelle aree urbane miliardi di persone vivono in estrema povertà e così resterà finché questo processo sarà percepito dai governi come un flagello da evitare. «Bisogna cambiare la narrativa: la buona urbanizzazione porta sviluppo e sostenibilità. Va perseguita e regolamentata, non evitata», esorta Clos. Città interconnesse, capaci di adattarsi alle nuove esigenze di mobilità, abitabilità, produzione e consumo, ma anche in grado di resistere agli uragani causati dall’effetto serra, sarebbero la risposta giusta alle richieste di un’umanità sofferente, se solo venissero disegnate per l’inclusione, invece che per l’esclusione. La densità abitativa porta efficienza in tutti gli ambiti della vita umana: spostamenti, consumi energetici, gestione dei rifiuti, logistica, lavoro, intrattenimento. Ma le città di oggi sono congestionate e soggette a emergenze continue, perché le reti di trasporti, idriche, energetiche e gli altri servizi, compresi quelli sanitari, sono state pensate per una popolazione molto più ridotta. La soluzione non è relegare ai margini gli abitanti, assillati dai costi immobiliari esorbitanti, ma concentrare gli sforzi nella progettazione di spazi urbani a misura di abitante, dove la densità aiuti a sfruttare i piedi o la bici per gli spostamenti di corto raggio e dove gli insediamenti si sviluppino lungo le direttrici del trasporto pubblico su rotaia, più che lungo le strade, per ridurre inquinamento, ingorghi e incidenti. La Nuova Agenda Urbana di Habitat III, di cui è uscita una prima bozza, vuole appunto spingere i governi in questa direzione. Il punto è progettare le città dal basso e non dall’alto, da dentro e non da fuori, dando più potere agli enti locali, che nei Paesi in via di sviluppo sono spesso del tutto esautorati da ipertrofici governi centrali. A salvare le città dalla paralisi, si dice, verrà in soccorso la tecnologia, il mercato delle tecnologie per la smart city varrà 5oo miliardi di dollari nel 2020, in base alle previsioni di Frost & Sullivan, e solo il 50% di questo mercato sarà concentrato in Europa e Nord America, che oggi sono all’avanguardia. Per rendere le città intelligenti, però, non bastano le tecnologie. La bozza della Nuova Agenda Urbana, sfilata in anni di consultazioni con la società civile, indica al primo punto la necessità dì “mettere al centro le persone”. Le parole d’ordine sono buona amministrazione, economia, ambiente, mobilità, salute, sicurezza, istruzione, cultura e solidarietà. Per fare una smart city, dunque, ci vuole una smart society. Non a caso nelle graduatorie più diffuse le migliori smart city sono quasi sempre le stesse: Barcellona, Copenaghen, Helsinki, Singapore, Vancouver, Vienna... Città compatte, con sistemi di trasporto pubblico molto ben strutturati e una notevole interoperabilità modale, ma anche con una vivace vita culturale, una popolazione fiera di essere cittadina e un’amministrazione molto focalizzata sulle soluzioni più sostenibili. Le città migliori cercano soluzioni concrete: mentre i grandi del mondo litigano, incapaci di affrontare le emergenze ambientali, i sindaci pedonalizzano i centri urbani, srotolano piste ciclabili, costruiscono reti di trasporti pubblici, sostengono l’economia collaborativa, connettono le periferie, includono i marginali. Immaginare un futuro sostenibile è più facile partendo da un viale alberato.
|